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Come Disdire un Contratto di Appalto tra Privati

Quando si parla di contratto di appalto tra privati, di solito ci si riferisce a situazioni molto concrete: rifacimento del bagno, ristrutturazione dell’appartamento, realizzazione di una recinzione, installazione di infissi, costruzione di una piscina, lavori in giardino, oppure prestazioni più continuative come manutenzioni programmate. Da una parte c’è il committente, cioè chi ordina l’opera o il servizio e paga il corrispettivo; dall’altra l’appaltatore, cioè chi si impegna a eseguire l’opera con organizzazione di mezzi propri e a proprio rischio, spesso un artigiano o una piccola impresa.

Capita non raramente che, dopo aver firmato il contratto o comunque concordato i lavori, una delle parti voglia “disdire” l’accordo. Il committente può rendersi conto di non potersi più permettere la spesa, di aver cambiato idea sul tipo di intervento o di non essere soddisfatto di come l’appaltatore sta lavorando. L’appaltatore, a sua volta, può trovarsi di fronte a un committente che non collabora, non paga, cambia continuamente programma o rende impossibile proseguire l’opera.

“Disdire” un contratto di appalto non è però come annullare un abbonamento alla palestra. Si tratta di un contratto con obbligazioni reciproche e con regole precise nel codice civile, che parlano di recesso, risoluzione e responsabilità. Capire la differenza tra questi concetti e sapere come muoversi in modo ordinato aiuta a evitare errori che possono costare cari, sia economicamente sia in termini di rapporti personali.

Indice

  • 1 Disdetta, recesso e risoluzione: cosa cambia davvero
  • 2 Prima di disdire: leggere bene il contratto e ricostruire i fatti
  • 3 Il recesso del committente: quando si può dire “mi fermo qui”
  • 4 Il recesso o la risoluzione per inadempimento
  • 5 Come comunicare la disdetta o il recesso in modo corretto
  • 6 Conseguenze economiche: pagamenti, caparre e penali
  • 7 Lavori già eseguiti, materiali acquistati e stato del cantiere
  • 8 Quando è il caso di farsi assistere da un professionista

Disdetta, recesso e risoluzione: cosa cambia davvero

Nel linguaggio comune si usa spesso il termine “disdetta” per indicare qualsiasi interruzione di un contratto. Dal punto di vista giuridico, però, nel contratto di appalto le parole chiave sono soprattutto “recesso” e “risoluzione”.

Si parla in genere di recesso quando una parte decide di sciogliere il contratto per propria scelta, senza che necessariamente l’altra abbia commesso un inadempimento grave. Nel contratto di appalto il committente ha un potere di recesso particolare: può recedere anche se l’appaltatore non ha fatto nulla di sbagliato, a patto di indennizzarlo dei lavori già eseguiti e del mancato guadagno. È un recesso di tipo “libero”, ma non gratuito.

La risoluzione, invece, entra in gioco quando una parte non adempie correttamente alle proprie obbligazioni. Se l’appaltatore lavora male, è in ritardo ingiustificato, non rispetta le specifiche concordate o abbandona il cantiere, il committente può chiedere la risoluzione per inadempimento. Allo stesso modo, se il committente non paga quanto dovuto, impedisce l’accesso al cantiere o rende impossibile lavorare, l’appaltatore può chiedere la risoluzione del contratto. In questi casi non si tratta di un semplice “ho cambiato idea”, ma di sciogliere il contratto per colpa dell’altra parte, con eventuale diritto al risarcimento del danno.

La parola “disdetta” si usa più spesso per contratti di durata come locazioni o abbonamenti e indica, di solito, la comunicazione con cui si avvisa l’altra parte che non si intende proseguire oltre. Nell’appalto tra privati, quando si vuole “disdire” in corso d’opera, in realtà si sta esercitando un recesso o si sta puntando alla risoluzione. Sapere quale delle due situazioni si avvicina di più al proprio caso concreto è importante per capire quali obblighi economici ne derivano.

Prima di disdire: leggere bene il contratto e ricostruire i fatti

Il primo passo, prima di parlare di disdetta, è sempre lo stesso: tirare fuori il contratto, leggerlo con calma e capire cosa è stato scritto. Molti rapporti di appalto nascono da semplici preventivi firmati o da accordi via email, WhatsApp o messaggi, che però hanno comunque una loro forza. Bisogna cercare alcune informazioni chiave: quale opera è stata promessa, con quali caratteristiche principali, entro quali tempi, con che prezzo, con quali condizioni di pagamento, se sono previste penali per il recesso anticipato, quali clausole parlano di recesso o risoluzione, se è stata prevista una caparra e di che tipo.

È utile anche ricostruire una piccola cronologia dei fatti: quando è stato accettato il preventivo, quando sono iniziati i lavori, che cosa è stato effettivamente realizzato fino a quel momento, quali problemi sono emersi, se ci sono stati scambi di messaggi in cui si segnalavano ritardi, difetti o incomprensioni. Tutto questo serve per capire se ci troviamo davanti a un recesso per libera scelta oppure a un recesso o una risoluzione per inadempimento.

Se il contratto contiene una clausola che disciplina in modo specifico la possibilità di disdetta, con termini e conseguenze economiche, quella clausola diventa il primo punto di riferimento. Non sempre è valida in ogni sua parte, ma in molti casi orienta in modo significativo ciò che è possibile chiedere o pretendere.

Il recesso del committente: quando si può dire “mi fermo qui”

Nel contratto di appalto il committente gode di una facoltà particolare: anche se l’appaltatore sta lavorando correttamente, la legge gli consente di recedere dal contratto, cioè di dire “mi fermo qui, non voglio più proseguire i lavori”. Questa possibilità è pensata per tutelare chi commissiona l’opera, che potrebbe trovarsi in situazioni nuove rispetto a quando ha firmato: difficoltà economiche, ripensamenti sul progetto, cambi di programma.

Il rovescio della medaglia è che questo recesso non è gratuito. Il committente che decide di sciogliere il contratto per scelta propria deve comunque pagare all’appaltatore quanto dovuto per il lavoro già eseguito fino a quel momento, oltre a un indennizzo per il mancato guadagno sui lavori non ancora eseguiti. In pratica, l’appaltatore ha diritto a essere compensato almeno in parte per il profitto che avrebbe tratto se il contratto fosse stato portato a termine.

La misura concreta di questo indennizzo dipende dal contratto e dalle circostanze. Se, ad esempio, è stato pattuito un prezzo complessivo per rifare un appartamento e i lavori sono appena iniziati, il mancato guadagno potenziale è maggiore rispetto a un cantiere ormai quasi finito. Capita che il contratto preveda già percentuali o criteri; altrimenti, si procede per valutazioni di equità, eventualmente con l’aiuto di un tecnico o di un legale.

Va ricordato che il recesso deve essere esercitato prima che l’opera sia completata. Se l’appalto è praticamente finito e l’appaltatore ha già adempiuto alle principali obbligazioni, parlare di recesso del committente perde senso e il problema si sposta piuttosto sull’eventuale presenza di difetti, di ritardi o sull’esatto adempimento.

Il recesso o la risoluzione per inadempimento

Altra situazione è quella in cui il committente non vuole semplicemente cambiare idea, ma ritiene che l’appaltatore stia lavorando male o non stia rispettando quanto promesso. Ritardi gravi e ingiustificati, opere eseguite in modo non conforme al progetto, utilizzo di materiali diversi e peggiori rispetto a quelli pattuiti, violazione di norme di sicurezza, abbandono del cantiere: sono tutti esempi di possibili inadempimenti.

In questi casi non si parla tanto di recesso “libero”, quanto di recesso o di risoluzione per inadempimento. La logica cambia: non è più il committente che decide di fermare il contratto assumendosi il costo, ma è l’inadempimento dell’appaltatore che giustifica lo scioglimento del rapporto e, in certi casi, il risarcimento del danno.

Per muoversi con prudenza, di solito si segue una sequenza: si contestano in modo chiaro i problemi, si chiede all’appaltatore di rimediare in un termine ragionevole, si avvisa che, in mancanza, si valuterà la risoluzione. Se l’appaltatore non risponde, non interviene o continua a lavorare in modo scorretto, il committente potrà recedere o chiedere la risoluzione, eventualmente anche davanti a un giudice. In un contesto del genere l’aspetto probatorio è fondamentale: foto, relazioni tecniche, preventivi di altri professionisti per completare o rifare i lavori, messaggi e mail aiutano a dimostrare la gravità dell’inadempimento.

Anche l’appaltatore, dal canto suo, può chiedere la risoluzione se il problema viene dal committente: mancati pagamenti, richieste continue e non pattuite di modifiche senza adeguamento del prezzo, impossibilità di accedere al cantiere, ostacoli che rendono insostenibile il proseguimento dei lavori. In questi casi non si parla di “disdetta del contratto” nel senso comune, ma il risultato pratico è simile: il rapporto si interrompe e si discute su chi debba cosa a chi.

Come comunicare la disdetta o il recesso in modo corretto

Qualunque sia la strada che si intende seguire, un punto pratico è decisivo: la comunicazione. In materia contrattuale, ciò che non è scritto è sempre più difficile da dimostrare in seguito. Per questo, anche se i rapporti sono nati in modo informale, la “disdetta” o il recesso dovrebbero essere comunicati per iscritto, con un testo chiaro, datato e sottoscritto.

In concreto, è prudente usare strumenti che consentano di provare l’invio e la ricezione. Molti privati utilizzano la raccomandata con ricevuta di ritorno o, se entrambe le parti la possiedono, la posta elettronica certificata. Nella comunicazione è bene indicare i dati essenziali: chi scrive, chi è il destinatario, a quale contratto o lavoro ci si riferisce, quali problemi si sono verificati, che cosa si intende fare (recedere, chiedere la risoluzione, sospendere i pagamenti) e, se del caso, quali somme si è disposti a riconoscere per chiudere il rapporto.

Anche il tono ha la sua importanza. Meglio evitare frasi offensive o minacce generiche. È preferibile spiegare in modo fermo ma ordinato le ragioni della propria scelta e indicare che, in mancanza di un accordo, si valuterà l’assistenza di un professionista o il ricorso alle vie legali. Una comunicazione impostata con un minimo di rigore, eventualmente con l’aiuto di un avvocato, mette subito più in chiaro la serietà della posizione.

Conseguenze economiche: pagamenti, caparre e penali

Disdire un contratto di appalto tra privati non è mai neutro dal punto di vista economico. Se il recesso parte dal committente per sua scelta, dovrà mettere in conto almeno il saldo dei lavori già eseguiti e un indennizzo per il mancato guadagno dell’appaltatore. Se il recesso o la risoluzione avvengono invece per inadempimento dell’appaltatore, il committente potrà chiedere di non pagare integralmente il prezzo, di recuperare eventuali somme già versate o di ottenere un risarcimento pari alle spese necessarie per completare o rifare i lavori con un altro professionista.

Un tema frequente è quello della caparra. Se al momento dell’accordo è stata versata una caparra confirmatoria, bisogna vedere come è stata regolata. In linea generale, se è il committente a tirarsi indietro senza un giustificato motivo, può perdere la caparra versata. Se invece è l’appaltatore a non adempiere, il committente può talvolta pretendere la restituzione del doppio della caparra. Tuttavia molto dipende da come è formulata la clausola contrattuale e da come vengono accertate le responsabilità.

Un altro aspetto sono le eventuali penali contrattuali. Talvolta il contratto prevede penali in caso di ritardi nel completamento dei lavori o di recesso anticipato. Anche qui, bisogna leggere bene che cosa si è sottoscritto e valutare se la penale è proporzionata e compatibile con la legge. Penali del tutto sproporzionate potrebbero essere ridimensionate in sede giudiziale, ma è sempre meglio prevenire leggendo il contratto prima di firmarlo.

Lavori già eseguiti, materiali acquistati e stato del cantiere

Quando si decide di disdire un contratto di appalto in corso d’opera, c’è un tema pratico molto concreto: che cosa succede a ciò che è stato già fatto e ai materiali. Se i lavori sono stati eseguiti in modo corretto fino a un certo punto, il committente di solito resta proprietario di quanto è stato realizzato e dei materiali già incorporati nell’opera, purché corrisponda il valore dovuto all’appaltatore per quella parte.

Se l’appaltatore ha acquistato materiali specifici non ancora installati, la soluzione dipende dal tipo di accordo e da ciò che conviene a entrambe le parti. In alcuni casi il committente può rilevarli pagando il prezzo di costo, in altri l’appaltatore può portarli via e riutilizzarli altrove. L’importante è definire queste questioni per iscritto, magari con un piccolo verbale congiunto che descriva lo stato del cantiere al momento della disdetta, ciò che resta al committente, ciò che viene rimosso e le somme concordate.

Se i lavori già eseguiti sono invece difettosi o inutilizzabili, il discorso cambia. Il committente può chiedere la loro rimozione o la loro sistemazione a spese dell’appaltatore, oppure un risarcimento che tenga conto della necessità di rifare o correggere l’opera. In queste situazioni, una perizia tecnica è spesso indispensabile per capire quanto effettivamente valgono i lavori fatti e quali interventi servono per riportare la situazione alla normalità.

Quando è il caso di farsi assistere da un professionista

Disdire un contratto di appalto tra privati può essere relativamente semplice se i lavori non sono ancora iniziati, le somme versate sono modeste e c’è una buona collaborazione tra le parti. Diventa invece molto delicato quando in gioco ci sono cifre importanti, lavori strutturali in casa, situazioni di inadempimento contestato o rapporti ormai deteriorati.

In questi casi, rivolgersi a un avvocato esperto in materia contrattuale o in diritto dell’edilizia è spesso una buona idea. Un professionista può leggere il contratto, valutare i messaggi e i documenti, aiutarti a impostare correttamente le comunicazioni e, se necessario, avviare una vera e propria procedura di diffida o di richiesta di risoluzione. Può anche consigliarti se conviene cercare un accordo transattivo, magari accettando un compromesso economico pur di chiudere la vicenda, oppure se ha senso spingersi oltre e valutare un contenzioso.

Anche il supporto di un tecnico, come un geometra, un architetto o un ingegnere, può essere molto utile per valutare lo stato dei lavori, stimare i costi per completarli o rifarli e fornire una relazione tecnica utilizzabile nelle trattative o, se necessario, in giudizio.

Infine, è bene ricordare che una buona parte dei problemi può essere evitata con qualche accortezza in più all’inizio: pretendere un contratto scritto chiaro, definire in modo preciso oggetto e prezzo dell’appalto, stabilire modalità di pagamento legate a stati di avanzamento, inserire clausole equilibrate su ritardi, garanzie e recesso. Quando poi, nonostante tutto, nasce l’esigenza di disdire, muoversi con metodo, documentare i passaggi e non agire solo d’impulso è la strada migliore per tutelare i propri interessi senza aggravare inutilmente il conflitto.

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